Con sentenza n. 25104 del 19 giugno 2008 (in corso di pubblicazione) la Corte di Cassazione ha ribadito il principio, già espresso in precedenti sentenze, per il quale la riproduzione di software non originale per scopi professionali costituisce di per sé reato, e non semplice illecito amministrativo, previsto e punito dall'art. 171 bis, comma primo, Legge 633/41.
Il caso è il seguente: un professionista era stato condannato in primo grado per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software, di proprietà di famose società informatiche, senza averne la licenza d'uso.
Il caso è il seguente: un professionista era stato condannato in primo grado per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software, di proprietà di famose società informatiche, senza averne la licenza d'uso.
Contro tale sentenza era proposto ricorso in Cassazione da parte del professionista, il quale riteneva che, nel caso specifico, non potesse trovare applicazione l'art. 171 bis, primo comma, Legge 633/41 (c.d. Legge sul diritto d'autore), così come modificato dall'art. 13 Legge 248/00, che punisce con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da lire cinque milioni a trenta milioni, "Chiunque abusivamente duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE). La stessa pena si applica se il fatto concerne qualsiasi mezzo inteso unicamente a consentire o facilitare la rimozione arbitraria o l'elusione funzionale di dispositivi applicati a protezione di un programma per elaboratori. La pena non è inferiore nel minimo a due anni di reclusione e la multa a lire trenta milioni se il fatto è di rilevante gravità", bensì l'ipotesi meno grave prevista dall'art. 171 ter, comma primo, della medesima legge, che prevede una semplice sanzione amministrativa per l'abusivo utilizzo, per esclusivi scopi professionali, di prodotti informatici, privi della licenza d'uso.
La Corte di Cassazione ha tuttavia respinto il ricorso proposto, ritenendo che l'ipotesi di uso di software non originale in ufficio per scopi professionali rientri senza dubbio tra i casi previsti dall'art. 171 bis, comma primo, sopra citato, e non tra quelli dell'art. 171 ter, comma primo, e che pertanto il relativo comportamento rappresenti un vero e proprio reato.
Più nello specifico, la Cassazione ha ritenuto che, perché si abbia il reato previsto dall'art. 171 bis, non sia richiesto che la riproduzione del software sia destinata al commercio e quindi alla successiva rivendita, ma sia sufficiente il fine di trarre un quale profitto da tale uso.
In modo analogo, ricorda la Corte, per quanto attiene all'elemento soggettivo del reato, non è necessario il "fine di lucro" perché si configuri l'illecito penale (tecnicamente: non è necessario il dolo specifico del fine di lucro), essendo sufficiente che vi sia il "fine di trarre profitto", secondo un'accezione patrimoniale più ampia e generale rispetto al lucro in senso stretto.
Applicando tali principi al caso specifico, il fatto che il software pirata sia usato nello studio professionale e non sia destinato al commercio, pertanto, non esclude di per sé la possibilità di ravvisare un reato nel comportamento tenuto dal professionista.
Lo stesso dicasi per la mancanza di un fine di lucro, in quanto dall'utilizzo di software pirata deriva senza dubbio un profitto economico per il professionista, sufficiente a configurare il reato di cui all'art. 171 bis Legge citata.
Conclusivamente, ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza oggi commentata, "la detenzione e l'utilizzo di numerosi programmi software, illecitamente riprodotti, nello studio professionale rende manifesta la sussistenza del reato contestato" (art. 171 bis, comma primo, Legge sul diritto d'autore) "sotto il profilo oggettivo e soggettivo".


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